Laurenzèlla

Laurenzèlla

Laurenzèlla era un gioco che si inscenava nelle occasioni in cui era presente un cospicuo numero di giovanotti. Consisteva nel rappresentare una scena campestre incentrata sulla presenza di tre attori.

Un ragazzotto faceva la parte del proprietario di un fondo agricolo, con un cappellaccio in testa ed un bastone in una mano, mentre un secondo ragazzo rappresentava il suo interlocutore. Chi assumeva il ruolo di “padrone”, si atteggiava mettendo in risalto in modo grottesco le caratteristiche proprie dei possidenti. Con il bastone vergava sul terreno la piantina del fondo agricolo di cui fingeva di essere il proprietario. Ne disegnava i confini spiegando al suo interlocutore ogni particolare della mappa che andava tracciando.
Nel frattempo un terzo ragazzo si metteva uno scialle intorno alle spalle ed un fazzoletto sulla testa magari portando un cesto (ne panàre) sotto un braccio ed impersonava una popolana, Laurenzèlla, che tornava dalla campagna. Ad un certo punto Laurenzèlla, appena vedeva i due uomini, tirava un sospiro profondo e si buttava a terra, supina. Dopo aver assistito a questa scena, i primi due ragazzi si accostavano a Laurenzèlla e formulavano la domanda di rito: “che le sarà successo?”. Seguiva immancabile la constatazione del “padrone” che pontificava: “pe cadì ‘ntèrra accussì, è stàta vasàta pe la vìa” cioè, “per cadere a terra in questo modo, è stata baciata durante il tragitto”.

Il compito successivo era scoprire chi l’aveva baciata. I ragazzi presenti si avvicinavano, uno alla volta, e si chinavano (forse inginocchiandosi) accanto a Laurenzèlla e formulavano la domanda rituale: “So’ stàte fòrze ìe?” (“Sono stato forse io?”).

Laurènzella poteva rispondere in modo affermativo o meno. Probabilmente in qualche occasione titubava, per ispirare battute e lazzi da parte dei presenti, tuttavia tutto era lasciato al suo arbitrio. Se rispondeva “no”, allora il ragazzo chinato si rialzava e si allontanava, lasciando il posto ad un altro ragazzo. Se la risposta, era “sì, si stàte tu”, allora gli astanti – mettendo fine al gioco e facendo “saltare” la rappresentazione – cominciavano a prendere a botte colui che era chinato su Laurenzèlla, ovviamente con colpi che non avevano lo scopo di procurare danni reali al malcapitato. Come in ogni gioco “di mani”, tuttavia, vi era una crudeltà intrinseca, una malizia strisciante per cui, se il malcapitato era un ragazzo forte, con un certo prestigio, in grado di sapersi difendere e magari di vendicarsi in una futura prossima occasione, allora a lui erano riservati colpi “rispettosi” e più o meno “rituali”. Se invece il malcapitato era un bonaccione che non godeva di grande considerazione perché incapace di farsi valere, allora a lui venivano assestati colpi poderosi, inferti anche con cattiveria e violenza.

E’ facile immaginare come tutta la rappresentazione del gioco lasciasse spazio a motti più o meno allusivi soprattutto in un contesto in cui – immaginiamo – il consumo di vino predisponeva tutti gli astanti ad un atteggiamento licenzioso.

La scena rappresentata dava l’occasione a singoli individui di mettersi in mostra primeggiando grazie al proprio carattere spigliato e guascone e creava una pubblica gogna dove angariare i ragazzi meno smaliziati.

Il gioco creava una tensione in coloro che andavano a chinarsi aspettando proni il responso di Laurenzèlla. In quella posizione, infatti, era difficile potersi difendere dai colpi degli astanti e quindi si era vulnerabili ed esposti alle loro percosse.

Nelle scene rientravano i temi eterni del fondo agricolo e dell’aspirazione a possederne uno, del lavoro nei campi, delle donne che andavano a lavorare e il gioco nascondeva non tanto velatamente la cupidigia che il maschio provava nell’immaginare belle fanciulle ritornare da sole al paese.

 

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